Vi siete mai sentiti malissimo quando qualcuno, partendo da una singola situazione o da una frase detta senza molto pensare, oppure da un giorno non tanto bello, vi ha interpretato in modo sbagliato? Avete avuto voglia di gridare ma no, non sono così? Provate a mettervi nei panni dei bambini: questo è quanto succede loro quasi tutti i giorni.
In un mondo ogni volta più virtuale, interpretare (che vuol dire guardare gli altri attraverso un nostro particolare sguardo) sembra la tendenza generale nei rapporti umani. Ma le persone non sono frammenti di sé stesse. Nessuno è una frase, un vestito, un giorno, un lavoro, un profilo… Bisogna sforzarzi un po’ di più per conoscere qualcuno in tutta la sua complessità. Uno sforzo che vale la pena fare, perché gli esseri umani sono meravigliosi visti da vicino (anche se imperfetti e limitati, cosa che l’amore sa accettare).
I bambini sono ormai troppo interpretati e poco conosciuti. Avanzano analisi, diagnosi, valutazioni, giudici, affermazioni del tipo “questo bambino è…”, “quel’altro è…”. Ma chi sono nella realtà i bambini? Cosa dobbiamo fare per conoscerli davvero, evitando le nostre usuali (e parziali) interpretazioni che condizionano il nostro atteggiamento con loro (e, perché no, con tutti)?
La Sociologia dell’Infanzia si propone di rispondere a questa domanda. Gli studi che svolgono autori come William Corsaro, Allison James, Alan Prout e Jens Qvortrup, per esempio, puntano su una nuova prospettiva, ovvero la comprensione dei bambini in quanto attori sociali e dell”Infanzia in quanto categoria generazionale.
In questa concezione, si osservi bene, il ruolo dell’Interazione è fondamentale. Possibile conoscere senza interagire? (inteso come dedicare del tempo, convivere in profondità, vedere i diversi ambiti e non solo un’immagine, un layout sociale costruito – tutti abbiamo innumerevoli aspetti, a volte inaspettati, e non sarebbe esattamente questa la nostra bellezza?).
Bambini producono “Culture dell’Infanzia”. Ma poco si conosce su queste culture perché poco si ascolta e poco si domanda ai bambini. Secondo Quinteiro (2005:21), “c’è ancora molta resistenza ad accettare la testimonianza dei bambini come fonte di ricerca affidabile e rispettabile”. Non sarebbe il momento di cambiare punto di vista passando da un lavoro sui bambini a un lavoro con i bambini?
Per fare questo, dobbiamo abbandonare gli abiti da adulto (che interpreta soltanto, da un luogo suppostamente neutrale e “saggio”) e vestirne altri più addatti (forse anche più divertenti): dobbiamo entrare e partecipare della vita dei bambini , diventando “adulti atipici” (Corsaro).
Sono sicura che questa sia anche un’opportunità di diventare persone umane migliori e più giuste.